Politiche di genere

Care Amiche, solo poche parole per ringraziarvi del lavoro fatto assieme e dei risultati che, assieme, siamo riusciti ad ottenere in questi cinque anni e che ci sembrava giusto condividere con voi e che troverete a questo link.

Tra poche settimane la Provincia di Milano cederà il passo alla Città Metropolitana. Una scelta che abbiamo accettato con sofferenza ed amarezza perché siamo convinti che questa riforma, così come è stata ideata e strutturata, non porti vantaggi diretti ai cittadini, ma anzi apra ora una fase che rischia di creare maggiore incertezza. 

Proprio per questo motivo il nostro impegno, come amministratori locali, sarà quello di concentrare la nostra azione affinché la futura Città Metropolitana possa operare cercando di scongiurare al massimo i disservizi ai cittadini e, nel tempo, dare maggiori opportunità a tutti.

Per cinque anni, con il vostro aiuto, assieme a quello di decine di sindaci e amministratori locali, di giovani e di associazioni abbiamo promosso e sviluppato “reti”, progetti, iniziative e servizi per garantire l’effettiva pari opportunità tra donna e uomo in tutti gli ambiti della vita, in rete con le altre istituzioni pubbliche e private del territorio, al fine di diffondere una cultura di genere che sappia veramente valorizzare le differenze senza discriminare.

La scalata delle donne leader è ancora agli inizi e già si contano le cadute. Secondo uno studio sulle 2.500 aziende più importanti del mondo, solo il 5% degli amministratori delegati è di sesso femminile eppure la probabilità di perdere la poltrona è più alta per lei che per lui. Ben il 38% delle donne che hanno lasciato il posto negli ultimi dieci anni vi sono state costrette, mentre solo il 27% degli uomini è stato licenziato.

Il dibattito sul perché è aperto e ad alto rischio di sessismo più o meno consapevole. Escludiamo subito, per decenza, l’ipotesi secondo cui le donne sarebbero meno brave a comandare. Nessuno l’ha avanzata, per fortuna. La seconda della lista è fastidiosa ma il co-autore dell’indagine Per-Ola Karlsson la ritiene plausibile. In alcuni Paesi le pressioni culturali e politiche spingerebbero le società a osare un po’ di più pur di mettere al vertice una donna, e azzardare in qualche caso significa sbagliare. Una tesi, riportata dal Financial Times , che non avrà fatto piacere alle neo-presidentesse di Eni, Enel e Poste. Scoraggiante anche la lettura dell’Economist , secondo cui le donne falliscono perché messe alla guida di aziende in difficoltà. Il ragionamento è questo:

Aumentare l’occupazione femminile gioverebbe all’economia, soprattutto in Italia dove la situazione è arretrata. Secondo l’Ocse il reddito pro capite aumenterebbe per tutti di un punto percentuale l’anno. Ok, ma da dove cominciare per raggiungere l’obbiettivo? Ecco qualche spunto.

«Il vostro è uno dei Paesi della zona Euro che incoraggiano meno la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Un cambiamento di rotta, a parte ogni considerazione di progresso sociale, potrebbe avere effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e, quindi, sull’uscita da un periodo di stagnazione». A bacchettare l’Italia sul tema del lavoro femminile è stata Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 4 aprile scorso. Le dichiarazioni di Lagarde hanno avuto una certa risonanza e il giorno dopo, sullo stesso giornale, un articolo di Maurizio Ferrera ricordava che se al Sud le cose vanno peggio, nel confronto internazionale «anche in regioni relativamente ricche e sviluppate come l’Emilia Romagna o la Lombardia il tasso di occupazione femminile resta più basso rispetto alle aree con cui queste regioni dovrebbero confrontarsi». Il problema non è un diverso atteggiamento delle italiane rispetto al lavoro retribuito, osserva Ferrera, quanto l’insieme di ostacoli frapposti alla realizzazione di un normale progetto di vita: avere un lavoro e crescere dei figli. Se però l’Italia riuscisse a colmare il divario che separa il tasso di partecipazione femminile da quello maschile, il Pil aumenterebbe in modo considerevole, dando un impulso alla crescita e alla creazione di occupazione per tutti.

Parla Jerome Ballarin, presidente dell'Osservatorio francese per la parità nelle imprese: "Il modello da imitare è la Scandinavia".

Cita un proverbio svedese: "L'emancipazione delle donne attraverso il lavoro, l'emancipazione degli uomini attraverso la famiglia". Jerome Ballarin guarda alla Scandinavia come al modello da imitare. Ma il presidente dell'Osservatorio francese per la parità nelle imprese ha anche un riferimento in patria, è il "Contratto sociale" di Jean-Jacques Rousseau che anticipò, prima della Rivoluzione, il principio secondo cui "ogni uomo nasce libero". Allora si parlava ancora solo di uomini (qualche anno dopo la Dichiarazione universale dei diritti sarà sempre "dell'uomo") ma la strada verso l'uguaglianza era cominciata e non sarebbe più stato possibile tornare indietro. Ballarin ha battezzato la sua società di consulenza "1762", anno in cui venne pubblicato il "Contratto sociale". La missione di Ballarin è infatti convincere aziende e datori di lavoro a istituire un nuovo equilibrio tra famiglia e lavoro.

"Qualche anno fa  -  ricorda Ballarin - ho capito che dovevamo impegnarci tutti insieme, imprese, lavoratori e Stato, per fondare un nuovo contratto sociale che riesca a garantire il benessere degli individui senza danneggiare la produttività delle aziende". È nato così nel 2008 l'Osservatorio fondato da Ballarin, che è una sorta di Signor Conciliazione lavoro/famiglia, quasi la quadratura del cerchio. La Francia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di occupazione femminile in Europa, il 76,6%, ha il record di natalità (2,2 figli per donna) ma è anche una nazione in cui il tempo dedicato dai padri alla cura dei figli e alle occupazioni domestiche non è aumentato neanche di un minuto negli ultimi dieci anni. Uno squilibrio clamoroso.