Arianna Gagliardi ci ha incuriosito così tanto con i suoi tweet entusiasti dell’esperimento di telelavoro in Accenture Italia che le abbiamo chiesto di raccontarci di più della sua esperienza. Questa è la nostra intervista. Aspettiamo anche i vostri racconti di #smartworking e soprattutto i vostri contributi all’indirizzo mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. per migliorare la proposta di legge della deputata Pd Alessia Mosca, che insieme alle colleghe di Scelta Civica, Irene Tinagli, e Nuovo Centro Destra, Barbara Saltamartini, ha elaborato questo testo a favore del lavoro agile.

Cara Arianna, prima di tutto ci racconti cosa fai nella vita?
«Ho quarant’anni e sono Research Manager in Accenture Italia, un ufficio interno all’azienda che si occupa dello studio dell’andamento di determinati mercati, nel mio caso telecomunicazioni e media nei paesi di riferimento dei nostri clienti. Seguo un’area piuttosto vasta che va dall’Italia alla Grecia, dall’Europa dell’est alla Russia, passando per il Medio Oriente. Analizziamo le performance economiche di questi settori e dei nostri clienti per capire e leggere i trend di questi mercati. Mi piace perchè è sempre tutto nuovo, ma questo lo rende anche difficile».

Prima ancora del telelavoro, raccontavi di un riconoscimento fuori dal comune da parte della tua azienda
«Sì, il fatto di aver ricevuto una promozione mentre ero in maternità e di aver ottenuto ufficialmente il mio riconoscimento dopo aver partorito. Di storie simili non se ne sentono molte»

Cosa ci racconti invece dell’esperienza di telelavoro? Voi in azienda come lo chiamate?
«Da noi è “remote working”  ed è iniziato nel 2008. Un progetto pilota che all’inizio è stato proposto ad un centinaio di dipendenti con mansione da staff, nel senso interni, che non lavoravano come consulenti presso il cliente. È stato scritto un contratto specifico con l’ufficio legale per mettere nero su bianco questioni come la copertura assicurativa, le spese ma anche il controllo del capo, la concessione di fiducia al dipendente…»

E poi?
«Poi si è partiti, ci è stata data la possibilità di lavorare da remoto per uno o due giorni alla settimana, incentivando una scelta fissa per questioni organizzative. Ci hanno dotati di una chiavetta per internet o in alternativa un rimborso spese di 20 euro per l’abbonamento adsl di casa. Inoltre abbiamo seguito dei corsi e condiviso gli ipotetici rischi: come organizzare la postazione di lavoro a casa, il lavoro al video terminale, il riposo della vista dallo schermo del computer ogni tot tempo e non ultimo come bilanciare vita e lavoro, per non correre il rischio che tra le due cose non ci siano più confini».

Ed è stato un successo?
«Sì perchè sono stati capaci di fermare le proprie responsabilità sulla soglia di casa, senza abbandonare il dipendente. Dopo uno o due anni i partecipanti erano la maggior parte dei dipendenti, senza differenze tra uomini e donne».

Come è cambiata la tua vita?
«Prima di diventare mamma di Nicola, nel marzo del 2012, ho recuperato soprattutto il tempo degli spostamenti casa-ufficio e ho eliminato i tempi morti in azienda, le distrazioni…che ho colmato con le famose lavatrici, con la palestra in pausa pranzo, con il tempo per fare esperimenti di cucina. Con un bambino poi, il lavoro da remoto è diventato vitale. Io non ho una famiglia a cui lasciare mio figlio in attesa che vada al nido, perciò ci facciamo aiutare da una tata per quando sono in ufficio o per quando lavoro da casa: in questo modo posso vederlo di più, portarlo fuori nelle pause…cosa che non potrei fare se tornassi tutti i giorni a casa alle 20, come mi succede. Per non parlare dei vantaggi per chi una tata non se la può permettere o per chi vive fuori Milano, ma lavora in città, o chi magari ha il nido che però alle 18 chiude. Una vita costantemente in corsa, come quella di alcune mie amiche».

Anche con il tuo compagno sei riuscita a mantenere un buon equilibrio? Non ti sei ritrovata ad avere più responsabilità casalinghe di prima?
«Lui è un classico papà moderno, non è stato un ricatto, anzi. Certo, ora ad esempio ho il tempo di comprare la verdura fresca, e lo faccio io, invece che quella del supermercato, ma per il resto continuiamo a condividere gli impegni».

Nessuno svantaggio, sei sicura?
«Bè devo ammettere che mi capita di passare le giornate in pigiama, ma cosa importa? C’è chi sostiene che i rapporti con i colleghi possano rovinarsi ma molti dei miei interlocutori sono all’estero e già con loro comunico soprattutto tramite mail e call al computer. Gli altri li vedo tre giorni a settimana e penso siano sufficienti».

Cosa si può ancora migliorare secondo te?
«Da parte della mia azienda va bene così, c’è stato il massimo di responsabilità e disponibilità. Dal punto di vista generale, del paese e dello Stato è tutto da costruire. In Italia il concetto di “famiglia sacra” è solo uno slogan che non viene calato nella realtà, altrimenti le donne avrebbero un supporto a casa ma soprattutto sul lavoro. Bisogna fare poche cose ma bene e concretamente: la cosa più importante è semplificare la burocrazia per i datori di lavoro; conciliare i tempi dell’ufficio con gli orari dei servizi come gli asili nido; ci vuole flessibilità casalinga».

Dal tuo racconto sembra che le parole d’ordine siano “fiducia” e “responsabilizzazione”
«Sì, la fiducia serve a far convergere capi e dipendenti. E il senso di responsabilità, la motivazione, non cambia in base a dove ti trovi, da dove lavori. Un capo che si mostra sensibile, attento e disponibile ad offrire dei vantaggi avrà un dipendente coinvolto e desideroso di ripagare il proprio superiore».

Fonte: La 27ma ora