Il gender gap nei brevetti è ancora profondo. Come mai? "Riluttanza" delle scienziate a commercializzare la propria ricerca, peso degli stereotipi, o barriere maschili? Ne parliamo con Gianna Martinengo, imprenditrice e "militante" dell'innovazione tecnologica. Della quale dice: "Non si tratta solo di inventare un prodotto, ma di migliorare la qualità della vita".
In tutti i paesi e in tutti i settori scientifici, la percentuale di donne che ottiene brevetti è più bassa di quella dei colleghi uomini. Fenomeno che non si può spiegare solo in base alla bassa presenza femminile negli stessi settori scientifici: infatti la quota di donne che ottiene brevetti è anche più bassa della percentuale di donne presenti in ogni disciplina. In Italia il dibattito su questo punto è assente ma anche in altri paesi, per esempio negli Stati uniti, si inizia solo adesso a parlare di gender equalitynell’innovazione andando oltre l’analisi degli sbocchi nel mercato del lavoro dei settori caratterizzati da alto contenuto tecnologico, i cosiddetti “STEM” (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Un articolo recente del Clayman Institute for Gender Research della Stanford University ricorda come le donne abbiano una minore propensione a ottenere brevetti rispetto agli uomini, in particolare nei settori STEM (1). Secondo i dati raccolti dal National Center for Women and Information Technology la percentuale di donne inventrici è cresciuta dall’1,7% nel 1980 e al 6,1% nel 2005. Se si guarda ai brevetti nell’Information Technology, il 93,9% viene da uomini, che costituiscono il 70% della forza lavoro in questo settore. Anche in altri settori, ad esempio le scienze naturali, dove la percentuale di donne presenti come forza lavoro è più vicina alla parità, esiste un gap a sfavore delle donne nell’ottenere brevetti: studi condotti negli Stati Uniti su un campione di 4.227 facoltà mostrano che, a fronte di un ugual numero di pubblicazioni, la percentuale di donne che ha almeno un brevetto è pari al 6% contro il 13% degli uomini (2). Dati come questi richiedono di esplorare il ruolo delle donne all’interno del processo innovativo. Ne parliamo con Gianna Martinengo, componente del Comitato Tecnico Ricerca ed Innovazione di Assolombarda (3).

In questo momento di crisi tutti parlano di innovazione, ce ne dà una definizione?
Innovazione è una attività di pensiero che perfeziona un processo di produzione, un servizio, una tecnica. Innovare vuol dire concepire e rielaborare un processo in modo nuovo. Si può avere innovazione anche senza introdurre nuove tecnologie, ma sicuramente non si ha innovazione senza un miglioramento della qualità di vita del singolo o della collettività. Il cambiamento che porta il peggioramento delle condizioni non è innovazione: è regresso. Su questo punto dovremmo tutti convergere e sensibilizzare sia il mondo politico, istituzionale e accademico: il concetto di innovazione non può prescindere da una valutazione etica.

Perché le donne possono essere il motore dell’innovazione?
Le donne sono spesso orientate al sociale, e possono essere portatrici di competenze che garantiscono una facilità di ascolto, una naturale attitudine al dialogo, una consapevolezza delle cose che sanno e umiltà nel riconoscere quelle che non sanno. L’innovazione è lo strumento che meglio di altri garantisce il perseguimento di fini di carattere sociale laddove il termine innovazione è concepito nel suo esatto significato, non solo creazione di prodotti o processi nuovi ma miglioramento della qualità della vita. L’etica è il motore dell’innovazione, basta pensare al campo delle bio e nanotecnologie, uno dei settori che ha caratterizzato la rivoluzione del terzo millennio insieme alla rivoluzione digitale: nelle biotecnologie, per esempio, non è possibile prescindere nell’introdurre innovazioni da valutazioni di tipo etico.

In apertura abbiamo ricordando i dati statunitensi sul gender gap nei brevetti. Qual è il suo punto di vista al riguardo?
Vorrei ricordare un articolo di Sue Rosser del 2009. Secondo Rosser esiste proprio una difficoltà delle donne nell’ottenere brevetti. Perché le possibilità sono minori per le donne, sempre oberate più degli uomini da impegni familiari, sempre gravate da stereotipi di genere. Le donne risultano essere molto più avverse al rischio e quindi meno inclini degli uomini a intravedere la commercializzazione delle proprie idee. Inoltre le donne hanno meno network e si confrontano con venture capitalist che preferiscono gli uomini. Perciò bisognerebbe considerare la commercializzazione delle proprie idee come un ampliamento della propria agenda di ricerca e includere anche corsi di economia, politica e business nelle facoltà scientifiche. Dunque favorire la multidisciplinarietà. Occorre rompere l’atmosfera da club maschile che esiste secondo le ricerche del Clayman Institute anche in ambito brevettuale.

A questo riguardo cosa pensa di provvedimenti come le quote di genere, di recente introdotte in Italia per i cda delle società quotate? 
È importante favorire l’accesso a posizioni apicali per le donne, promuovere l’imprenditorialità femminile e investire sui “brevetti rosa”. L’accesso a posizioni decisionali è dettato dalla necessità di utilizzare le donne per promuovere la crescita del paese, le istituzioni, il mondo imprenditoriale, le accademie hanno bisogno di una giusta diversità garantita solo attraverso un’uguaglianza per le donne, più donne che lavorano portano anche a una maggiore crescita del nostro paese. Le ragioni quindi sono strettamente economiche. L’imprenditorialità al femminile, che nonostante tutto è in forte crescita (si parla di imprenditorialità femminile quando il capitale sociale è per il 51% in mano a donne), è poco incentivata, le donne sono penalizzate nel ruolo della conciliazione e sono assenti strumenti di premialità che a parità di punteggio su progetti diano un vantaggio a proposte presentate da imprese femminili. Per quanto riguarda le quote rosa, penso che siano una necessità per coloro che si sono laureate dopo gli anni ‘80. Un tempo la laurea permetteva una via di accesso immediata al mercato del lavoro, ma in seguito e ancor più con l’attuale crisi le vie di accesso al mercato del lavoro si sono rese più difficili e al tempo stesso si è ampliata la forbice d’ingresso tra uomini e donne a favore degli uomini. Le quote rosa, naturalmente legate al merito, divengono una necessità imprescindibile, almeno temporanea.

NOTE
(1) Candy Ku, “Achieving gender equality in technology and innovation: 50:50 by 2020?”, August 1, 2011.
(2) “The Gender Gap in Patenting: Is Technology Transfer a Feminist Issue?”, NWSA Journal, volume 21, n.2, estate 2009. Per i dati si veda anche http://ethics.uncc.edu/sites/ethics.uncc.edu/files/media/rosser%20lecture.uncc_.pdf
(3) Gianna Martinengo ha fondato nel 1983 Didael (Didattica con l'elaboratore); inizia, con pochi collaboratori, lo sviluppo di prodotti per la scuola. La missione aziendale è: dialogo persona/persona mediato da tecnologie e non semplicemente "sostituire l'insegnante con una buona interfaccia uomo-macchina". La scelta di approccio è stata influenzata dalla formazione a Stanford: coò che conta è l'effetto di apprendimento sull'allievo. Negli anni '90 Didael diventa una delle prime Web knowledge company italiane. Nel 1993 Gianna Martinengo fonda a Bruxelles, con un gruppo di ricercatori internazionali, KT (Knowledge Technologies bv); nel 1997 partecipa con la società Mediatech: dialogo ed interazione alla creazione di Atlantis (progetto e laboratorio di ricerca e innovazione sul territorio). Nel 2010 con un gruppo di giovani collaboratori fonda Didael KTS (Knowledge Technologies Services).

di Maria Letizia Giorgetti

Fonte: ingenere.it