Euroafrica, la voce delle donne è il titolo di un libro a cura da Marina Piccone, fortemente voluto dall’europarlamentare Silvia Costa. È stato presentato lo scorso 30 marzo a Roma, in Parlamento, luogo istituzionale di grande importanza e significato che richiama lo Stato e i suoi doveri di difendere e proteggere tutti i suoi cittadini, sia di nascita che di adozione. Il libro è stato dedicato in modo particolare alle tre donne Premio Nobel per la Pace, Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee and Tawakkul Karman, ma vuole raccontare la vita e l’impegno di tante altre donne africane e italiane nel dialogo euro-africano.

Nel libro sono raccolte le storie di alcune donne africane immigrate in Italia e altre storie di donne italiane legate all’Africa. Insieme raccontano la bellezza e ricchezza del mondo africano femminile, ma anche la difficoltà di essere donna, africana e immigrata
, a volte emarginata e anche svantaggiata, specialmente per quanto riguarda l’inserimento in una nuova realtà sociale e lavorativa. Grazie, però, alle loro capacità e tenacia queste donne hanno raggiunto traguardi molto importanti, non solo per loro e le loro famiglie, ma soprattutto per la nostra stessa società, dove sono inserite e sono pure un esempio e uno stimolo per altre donne africane e non solo.
 
Alcune di loro erano presenti e hanno dato la loro testimonianza di donne che hanno rischiato, lottato e sofferto per ottenere una posizione e offrire a loro volta un contributo valido e prezioso nel mondo dell’immigrazione e di interazione nel nostro Paese. Tra queste donne, che hanno saputo raggiungere una posizione di rilievo, favorendo un vero scambio di valori umani e culturali, erano presenti Suzanne Diku Mbiye e Muanji Pauline Kashale della Repubblica Democratica del Congo; Maria Josè Mendes Evora e Dulce Araujo, capoverdiane; Marguerite Lottin, camerunese.
 
Quando mi hanno chiesto di parlare della mia esperienza di donna e missionaria italiana che opera a contatto con tante donne immigrate, specialmente africane, non ho potuto fare a meno di parlare della sofferenza di tante giovani venute in Italia con il miraggio di un lavoro onesto per aiutare le loro famiglie e che purtroppo sono finite nelle mani di nuovi schiavisti che le hanno derubate di tutto, dei loro sogni, della loro giovinezza e persino della loro dignità. Molte sono poi finite in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) perché prive di documenti, dove vengono trattenute in condizioni disumane per 18 mesi e vengono espulse senza un minimo di rispetto per la loro dignità. In uno di questi centri, quello di Ponte Galeria di Roma - che visito ogni sabato dal 2003, insieme a un gruppo di religiose di diversi Paesi e congregazioni - scopro ogni volta la sofferenza, la delusione e la rabbia di tante giovani donne, che si trovano rinchiuse un ambiente di uno squallore indescrivibile, fatto solo di cemento e sbarre di ferro.
 
Queste donne esigono di essere trattate come esseri umani e non come “criminali” o “clandestine”. Molte di loro vivono momenti di profonda disperazione, specie quando sono consapevoli che presto verranno espulse e dovranno tornare a casa a mani vuote, con il rischio di venir rifiutate anche dalla famiglia. Aisha, per esempio, era una donna tunisina terrorizzata dall’idea di tornare a casa. Sapeva che nel suo Paese l’avrebbero di certo uccisa e spesso ripeteva che piuttosto avrebbe preferito togliersi lei stessa la vita. Quando le hanno comunicato che il giorno dopo sarebbe stata rimpatriata, a nulla sono valsi i consigli e l’occhio attento delle amiche, che hanno vegliato con lei per quasi tutta la notte: il mattino presto, il suo corpo privo di vita è stato ritrovato appeso alla doccia. Sconvolte e addolorate, non ci è rimasto che interrogarci su cosa avremmo potuto fare per prevenire questo dramma e salvare quella giovane vita.
 
All’inizio i migranti potevano essere trattenuti per trenta giorni; poi i giorni sono stati raddoppiati fino ad arrivare a sei mesi. Oggi una nuova normativa prevede di prolungare la loro permanenza in questi centri addirittura sino a diciotto mesi. Un anno e mezzo di detenzione. È un’ingiustizia! Una terribile violazione dei diritti umani e un’inutile sofferenza inflitta a degli innocenti. Mi sconcerta e mi indigna che, ancora una volta, siano loro a pagare il prezzo più alto di politiche ingiuste che confondono le vittime coi carnefici. Intanto trafficanti e clienti rimangono impuniti, se non addirittura protetti dalla stessa legge, semplicemente perché in possesso di un permesso di soggiorno, magari ottenuto tramite corruzione, o di documenti in regola.

Fonte: Famiglia Cristiana