Le statistiche sono impietose e fotografano dicontinuo il grande gap che esiste tra uomini e donne in Italia. L’ultimo dato viene da una ricerca condotta dall’Istat all’interno di un progetto promosso dall’Ocse e finalizzato a misurare il capitale umano per comparare i singoli Paesi e per esaminare il livello di sostenibilità dei sistemi di welfare, sottoposti a livelli di stress che non conoscevamo nel Novecento. Ebbene il dato medio riferito ai maschi è di 435 mila contro 231 mila delle donne, quasi il doppio quindi. La media nazionale, per la cronaca, è di 342 mila.

Spiega l’Istat: «Il differenziale è da mettersi in relazione alle differenze di remunerazione esistenti tra uomini e donne, ma anche al minor numero di donne che lavorano e al minor numero di anni lavorati in media nell’arco della loro vita». Ovviamente molto dipende dalla nozione di capitale umano che si fa propria ed in questo caso avendo l’Ocse adottato quella che gli statistici chiamano l’approccio Jorgenson-Fraumeni si opera sostanzialmente su due parametri: il livello di istruzione e il reddito percepito. E sappiamo bene come entrambi gli indicatori giochino — assieme al sostanziale monopolio «rosa» del lavoro domestico — «contro» le donne.

Sul concetto di capitale umano — distinto da quello finanziario e da quello naturale — la scienza economica si è interrogata almeno dai tempi di Adam Smith e della sua Ricchezza delle nazioni. Più di recente, grazie all’apporto della sociologia, la riflessione sul capitale umano si è allargata e oggi contempla il peso delle esperienze e la capacità di networking, due fattori però difficilmente quantificabili. Non è un caso però che accademici come Maurizio Ferrera, proprio in virtù dell’allargamento della nozione di capitale umano, siano portati a rivalutare fortemente molto l’apporto femminile dovuto innanzitutto alla maggiore capacità di far rete. Più prosaicamente non va dimenticato come nella vita di tutti i giorni le assicurazioni usino tecniche di valutazione del potenziale di produzione del reddito di una persona scomparsa o impossibilitata (per un trauma) a svolgere il proprio lavoro per definire il risarcimento danni, come raccontato di recente dal film di Paolo Virzì, che ha come titolo proprio Il Capitale umano.

Lo studio Istat — definito «sperimentale» — adotta, come abbiamo detto, uno schema più semplificato (definito di Jorgenson-Fraumeni). Il metodo di calcolo usato dall’istituto di statistica considera il valore attuale del reddito da lavoro lungo il ciclo di vita previsto tenendo conto di possibili cambiamenti della retribuzione (dovuti anche all’esperienza), di ulteriore istruzione che si può acquisire, di modelli differenziali di partecipazione alla forza lavoro e della mortalità. Quindi si tiene conto della formazione, delle condizioni del mercato del lavoro e delle tendenze demografiche.

Il guaio è che i dati si fermano al 2008 e quindi non fotografano gli effetti della Grande Crisi che stanno mettendo a dura prova il modello sociale italiano. Si può aggiungere che in qualche maniera i dati forniti dalla rilevazione Ocse-Istat finiscono per sovrastimare il valore nominale del titolo di studio senza poter tener conto del fenomeno, ad esempio, delle lauree deboli. Riconoscimenti universitari uguali agli altri dal punto di vista statistico ma che hanno un impatto reale, in termini di occupabilità, molto basso sul mercato del lavoro e che obbligano spesso il giovane uscito dagli studi ad accettare un lavoro da «qualcosista», per usare la definizione coniata da Giuseppe De Rita.

Fonte: La 27ma ora