Accesso alla rete, cittadinanza digitale, open gov e open data, diritto a curarsi in qualsiasi Paese europeo grazie al fascicolo sanitario elettronico...L'Italia ha dimenticato di fare parecchi compiti a casa, sul piano dei diritti. Ecco il quadro delle lacune.

Da qualche mese – in particolare da quando ho iniziato a scrivere il documento di smart specialisation strategy del Piemonte[1] – mi sono affezionato alla definizione di ecosistema digitale, non tanto per sostituire quella ormai un tantino inflazionata di agenda, ma piuttosto per farla evolvere e renderla più rappresentativa del contesto, ovvero di fattore abilitante per lo sviluppo, la crescita e la competitività di un territorio.

Non si tratta quindi di una mera questione semantica bensì di un problema di sostanza e per spiegarlo provo ad aiutarmi con una metafora.

Immaginate una metropoli con un suo nuovo e moderno piano regolatore da realizzare, un suo sistema viario e logistico da riprogettare, una serie di cantieri aperti e milioni di cittadini e di imprenditori che devono coniugare la quotidianità con i lavori in corso. Rende l’idea?

Il passaggio dal medioevo analogico al nuovo mondo digitale richiede la cantierizzazione del Paese, l’individuazione delle risorse da investire – non mi stancherò mai di porre l’accento sull’importanza del ROI[2] - e comporta inevitabilmente una serie di disagi che saranno certamente più che compensati dalla disponibilità di un nuovo ambiente dinamico, competitivo, produttivo, amichevole, vivibile, sicuro e ricco di opportunità. Un ecosistema digitale, appunto.

Può apparire banale ma per fondare il nuovo mondo occorre iniziare dal riconoscimento dei suoi diritti fondamentali.

Nel caso di quello digitale i due diritti fondamentali – e da questo punto di vista in Italia onestamente siamo messi ancora malissimo – sono quello dell’accesso alla rete e quello del riconoscimento della cittadinanza digitale.

La disponibilità di accesso alla banda larga per tutti i cittadini e su tutto il territorio è un obiettivo che tarda ad essere raggiunto – lo spiegano bene Alessandro Longo e Rossella Lehnus su La Repubblica[3]– e gli italiani che sono in possesso di una identità digitale sono ancora veramente pochi.

Un sistema che genera una quantità di dati[4] – preziosi, utili e, in taluni casi, riservati e sensibili – sempre più grande – anche grazie alla crescita dell’internet delle cose[5] – deve essere in grado di custodirli, di proteggerli e di renderli disponibili.

I dati devono essere considerati un public good[6].

Purtroppo anche in questo caso – come saggiamente ci ricorda con ostinazione e indubbia competenza Agostino Ragosa, il Direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale[7] – siamo tra gli ultimi della classe.

Sappiamo gestire gli open e i big data?[8]

La pubblica amministrazione ha finalmente compreso l’importanza di rilasciare i dati in modalità aperta – in conformità al paradigma dell’open government e per ottemperare a quanto indicato dall’Unione Europea – e il Paese sta progressivamente prendendo consapevolezza della utilità e del valore economico dei dati –, ma questi ad oggi, salvo alcune buone pratiche, sono conservati in una miriade di data center – a volerli generosamente chiamare così –  energivori, fragili, vulnerabili e costosi nel totale dispregio di quanto ancora una volta ci raccomanda l’Europa e in ossequio a una paradossale logica di un surreale manuale cencelli delle infrastrutture digitali[9].

Per fortuna invece sul versante della competenza e della reputazione scientifica possiamo invece contare sulla presenza di alcuni casi di assoluta eccellenza mondiale, tra i quali ritengo doveroso citare il professor Mario Rasetti e la Fondazione ISI[10].

Certo che in un contesto dove ci starebbe benissimo un Ministro con la delega per la Creazione del Futuro e della Scienza occorre dedicare particolare attenzione alla digitalizzazione del comparto educativo, formativo e scolastico..

Se saremo però in grado di gestire in maniera utile e produttiva i fondi strutturali della nuova programmazione europea – risorse da investire e non da sperperare come spesa corrente – sarà possibile aprire un grandissimo cantiere – forse il più utile di tutti – e cambiare radicalmente i metodi di istruzione, di apprendimento, di scambio e condivisione della conoscenza e di generazione di competenze.

Vorrei vedere, e non solo immaginare, scuole – ma in generale luoghi educativi – che siano smart building, in sicurezza ed efficienza energetica e interconnesse in banda ultra larga dalle quali sia possibile accedere ai contenuti digitali per diventare così il punto di riferimento della valorizzazione della conoscenza.

Sono un sognatore? Un visionario?

Inoltre l’Italia soffrirà sempre di più della mancanza di competenze digitali di natura professionale, manageriale e imprenditoriale – visto che il nostro tessuto produttivo è prevalentemente composto da piccole e medie imprese –  se non si interverrà in maniera intelligente attraverso l’uso del Fondo Sociale Europeo[11].

Andiamo avanti, quali sono le altre priorità?

Non disponiamo di una anagrafe della popolazione attendibile e i dati dei cittadini sono sparsi inennemila sistemi informativi diversi e non interoperabili tra loro: è una affermazione forte ma lo Stato di fatto non esiste.

La diffusione del commercio elettronico e dei sistemi di pagamento digitali – argomenti che in altri paesi sono stati trattati con successo nel millennio scorso – fornirebbero un contributo determinate per aprire il mercato, ridisegnare la logistica delle merci e sconfiggere fenomeni patologici come l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro sporco.

Uno dei temi più cari ai cittadini è quello della salute ed il fallimento del fascicolo sanitario elettronico italiano è per certi versi quasi inspiegabile visto che la competenza è nelle mani delle regioni, le quali dispongono di una fitta rete di società in house[12] che hanno capacità e autorità per agire in armonia con il mercato che, in questo caso, dispone ormai di soluzioni interoperabili che rispettano standard da tempo riconosciuti e condivisi.

Invece in gran parte del Paese, a parte qualche caso, i fascicoli sanitari sono parziali e incompleti –addirittura ospedalieri e di specialità –, non rispettano i requisiti di interoperabilità e non sono messi in sicurezza dal punto di vista della sicurezza informatica anche se trattano dati ovviamente sensibili.

Il tempo a disposizione è ormai scaduto visto che – tra l’altro – il 25 ottobre è entrata in vigore la Direttiva Comunitaria 2011/24/UE[13] che garantisce il diritto dei cittadini dell’Unione Europea a scegliere di curarsi in un altro stato dell’Unione, recepita dall'Italia con un decreto del 4 dicembre 2013, e le regioni devono assolutamente mettersi al lavoro per rendere disponibile il fascicolo in tempi brevi.

Altro? Probabilmente sì ma per adesso può bastare.

Portato finalmente a casa il risultato dell’approvazione definitiva della Statuto dell’AgID è venuto il momento di fare definitivamente chiarezza sull’ammontare delle risorse da investire, sulla ripartizione di ruoli e responsabilità e sulla formalizzazione dello stretto rapporto tra l’ecosistema digitale e la smart specialisation strategy dello Stato e delle regioni, argomenti che ho già trattato in articoli precedenti pubblicati su www.agendadigitale.eu.

Il secondo semestre di Presidenza dell’Unione Europea del 2014 è alle porte e spetta all’Italia e l’ecosistema digitale sarà uno degli argomenti in agenda, sarà bene arrivare preparati a questo importantissimo appuntamento.

 

Fonte: Agenda Digitale - Roberto Moriondo