In molti ambiti scientifici, nonostante l’elevato numero di laureate, le donne presenti sono ancora poche. La Notte rosa ha dedicato spazi di riflessione a questo tema

di Serenella Molendini*

Solo il 25% dei ricercatori è donna, secondo il dato fornitodall’Annuario Scienza e Società del 2009, che sottolinea come i cervelli in rosa paghino anche in termini retribuitivi, dal momento in cui, a parità di titolo di studio, si registra un gender pay gap del 10% e che questo tende ad aumentare nel corso della carriera, arrivando a raggiungere il 33%. Le note criticità relative all’accesso e permanenza nel mercato del lavoro per le donne investono in pieno il settore della ricerca, caratterizzata da una drammatica sottorappresentazione delle donne in alcuni settori occupazionali della ricerca scientifica, in particolare nei settori a più alta tecnologia. In molti ambiti scientifici, nonostante l’alto numero di laureate, le donne presenti sono ancora poche, e pochissime quelle in ruoli gerarchici elevati.


La scarsa attenzione alla presenza femminile tra i ricercatori è testimoniata dalla carenza di statistiche di genere aggiornate. L’ultimo dato Eurostat sulla percentuale di donne tra i ricercatori – pari al 33% – risale al 2006, mentre tra i numerosi dati messi a disposizione dall’Airi – Associazione italiana per la ricerca industriale – sul personale addetto alla ricerca e sviluppo in Italia spicca l’assenza di informazioni circa la distribuzione dei ricercatori in base al sesso. Sappiamo, però, che al CNR solo un dirigente su 5 è una donna, percentuale che scende al 19% all’Istituto Nazionale di Astrofisica e all’11% all’Istituto di Fisica nucleare.

 

La presenza delle donne nei principali istituti di ricerca italiani

Anche quando presenti, le donne hanno in genere minore accesso alle risorse finanziarie dedicate a Ricerca & Sviluppo, ricevono retribuzioni più basse e hanno possibilità di gran lunga inferiori di raggiungere posizioni di vertice nelle istituzioni in cui lavorano. Oltre ad una segregazione “orizzontale”, cioè per indirizzo di studio e di occupazione, le ricercatrici patiscono una segregazione “verticale”, che le vede scarsamente rappresentate ai vertici delle istituzioni di ricerca in Italia e in Europa.

Si tratta di una criticità di estrema rilevanza sia perché tale mancata presenza condiziona le scelte formative delle più giovani – meno donne fanno carriera in alcuni settori, e meno donne saranno invogliate ad intraprendere un corso di studi – e quindi indirizzare la propria vita professionale – in quei settori, considerati per loro penalizzanti, sia perché è al “top level” che vengono prese le decisioni che definiscono l’agenda europea della ricerca. Il fatto che il potere decisionale sia quasi esclusivamente in mano maschile condiziona la possibilità di realizzazione di un progresso delle donne nella gerarchia professionale della ricerca scientifica. Nel 2008, il Rapporto della Commissione europea Mapping the maze: getting more women to the top in research ha sottolineato come la parità tra i generi rappresenti a tutti gli effetti una parte essenziale della qualità della scienza: “there can be non qualità without equality”. Non ci può essere qualità senza parità. Da qui la necessità di introdurre sistematicamente – sottolinea il rapporto – la prospettiva di genere nello sia nello sviluppo delle risorse umane che della ricerca, nella formazione dei decisori come nelle procedure di assunzione e promozione
Il “soffitto di cristallo”, cioè quella invisibile barriera che sovrasta le donne impedendo loro di raggiungere i vertici delle carriere, appare tuttavia per le ricercatrici europee davvero difficile da infrangere.
Oltre al permanere del noto “soffitto di cristallo” che impedisce alle ricercatrici europee di accedere alle posizioni di maggiore responsabilità e di raggiungere i vertici delle carriere, si assiste al fenomeno del cosiddetto leaky pipeline: ad ogni livello del percorso di carriera le donne fuoriescono dal sistema organizzativo con una frequenza più elevata di quella maschile. Il problema non è dunque solo quello di una maggiore difficoltà nel percorso di carriera; una volta “entrate” nel mondo del lavoro, alle donne si presentano molteplici fattori di rischio di fuoriuscita (effetto revolving doors): per la difficoltà di conciliare vita e lavoro alla nascita dei figli, per mancanza di un adeguato supporto iniziale che sappia valorizzare le capacità femminili, per la scarsità di riconoscimenti e opportunità di carriera, per dinamiche di esclusione e isolamento sul posto di lavoro che portano le donne, più spesso degli uomini, a disinvestire nel lavoro.

Una delle maggiori conseguenze di questo squilibrio è che la capacità di sviluppo della ricerca europea potrebbe essere seriamente compromessa se le risorse intellettuali di tutti, donne incluse, non saranno adeguatamente valorizzate e impiegate con maggiore equità di quanto fatto finora. Le implicazioni di questo squilibrio di genere per lo sviluppo economico dell’Unione sono infatti molto serie, poiché sarà difficile, in queste condizioni, mantenere (e impossibile accrescere) la capacità di effettuare ricerca in Europa. Il mancato obiettivo posto dalla Commissione Europea di innalzare fino al 3% la quota del PIL europeo dedicata alla Ricerca & Sviluppo entro il 2010 implicava l’immissione di ulteriori 700.000 ricercatori in Europa, i due terzi dei quali sarebbero dovuti provenire dal settore dell’impresa privata, il più avaro in termini di possibilità di accesso professionale per le donne.

L’Unione Europea ha riconosciuto che la disparità di genere nell’accesso alle carriere tecno-scientifiche compromette:

  • l’equità del sistema – la discriminazione di genere è una violazione dei diritti umani;
  • l’eccellenza – si rinuncia a sviluppare le potenzialità di una percentuale rilevante della popolazione;
  • l’efficienza – è uno spreco istruire e formare giovani scienziate per poi non usarne la capacità sul lavoro.

Sono necessarie azioni che promuovano una qualificata partecipazione delle donne nelle professioni scientifiche, che intervengano sia sulle scelte formative segreganti, che sul piano organizzativo. L’organizzazione del lavoro è, in questo come in altri ambiti, di matrice culturale prettamente maschile e dà luogo a fenomeni noti in ogni campo professionale, come, ad esempio:

  • l’importanza della presenza fisica fuori orario;
  • la penalizzazione per periodi anche brevi di assenza a prescindere dalla natura del lavoro;
  • l’isolamento delle poche donne ai vertici;
  • l’esclusione dalle reti informali e l’esistenza di regole non scritte.

In tal cornice, il rientro a lavoro dopo la maternità costituisce un momento particolarmente critico per le ricercatrici, con il rischio di una eventuale mobbizzazione se non una definitiva induzione a lasciare il lavoro. Anche quante – docenti, ricercatrici – possono sul piano teorico usufruire di strumenti di conciliazione, come i congedi parentali, spesso rinunciano a usufruirne, sollecitate in questo da una pressione ad essere iperpresenti e iperdisponibili, pena la marginalizzazone professionale. Diverse ricerche condotte in ambito comunitario mettono in evidenza che la difficoltà di conciliare l’attività professionale con le cure familiari determina, nel campo della ricerca scientifica e tecnologica più che in altri settori, profondi conflitti psicologici e organizzativi nelle donne. Esse infatti si trovano costrette, nella maggior parte dei casi, a rinunciare o ritardare la maternità, oppure a rallentare la propria attività professionale, compromettendo in maniera spesso irreversibile le proprie possibilità di raggiungere livelli di eccellenza, se non addirittura ad abbandonarla. Spesso la soluzione è tuttavia il ridimensionamento delle proprie aspettative e l’adattamento a modelli di “carriera ridotta” che mortificano le potenzialità delle ricercatrici. Diventare madri per molte donne impegnate in ambito scientifico significa ritardare il conseguimento del dottorato, limitare la mobilità, sia istituzionale che geografica, essere penalizzate sul piano delle prospettive di promozione e di conseguimento di una posizione di insegnamento a tempo indeterminato. Per le giovani donne si fanno inoltre registrare gli effetti negativi di responsabilità di cura solo ipotizzate. Come rilevato da una ricerca condotta nei Paesi Bassi, al peso effettivo delle difficoltà collegate alla conciliazione, si aggiunge infatti, spesso, la convinzione stereotipata che le giovani ricercatrici, rispetto ai loro colleghi maschi, si impegnino e investano di meno nel proprio lavoro rispetto ad altre sfere della vita, anche in assenza di riscontri oggettivi relativi al tempo passato in istituto o alla produttività in termini di pubblicazioni. Tale convinzione produce tuttavia effetti reali, che spesso si concretizzano in valutazioni più negative ed esclusione dalle promozioni.

Liberare il potenziale femminile, valorizzare le energie e competenze di cui le donne sono portatrici, implica la messa in campo di un sistema integrato di servizi e interventi atti a favorire la conciliazione e la promozione di una diversa organizzazione del lavoro. Il già citato rapporto della Commissione europea (2008) sottolineava per favorire la presenza delle donne al top level della ricerca e negli organi decisionali fosse necessario promuovere anche maggiori misure per la conciliazione vita-lavoro. Il rapporto sottolineava, tuttavia, come le misure di conciliazione non dovessero limitarsi a favorire la custodia dei figli ma promuovere politiche di gestione del tempo diverse, non discriminanti né per le donne né per gli uomini con obblighi di cura nei confronti dei figli o dei familiari anziani.

Abbiamo ottenuto già dei risultati straordinari in questa edizione della Notte Rosa:

  1. la partecipazione al Seminario Vita da Streghe Scienza Tecnologia Ricerca: la Sfida delle Donne, di 10 ricercatrici di grande spessore e qualità appartenenti a generazioni anagrafiche diverse per mettere a confronto attraverso la loro narrazione e testimonianza la sfida che hanno dovuto compiere nel loro essere ricercatrici donne;
  2. la candidatura al Premio TALENTO DONNA, da me istituito, di 36 ricercatrici di origine pugliese operanti in Puglia, in Italia e all’estero nei vari settori della ricerca.

Ci auguriamo che aver acceso i riflettori sul binomio Donne e Ricerca possa consentirci ancor più di utilizzare tutti gli strumenti che le Istituzioni hanno a disposizione per prevenire e combattere la discriminazione di genere che è presente anche nella scienza e nella ricerca.
Vogliamo ancora una volta sottolineare l’importanza del concetto di mainstreaming, un approccio strategico a lungo termine per la parità dei sessi nella differenza.
Questo deve significare che ci piacerebbe spostare l’attenzione dalle misure speciali per soggetti svantaggiati alle modifiche ex ante delle pratiche e delle politiche delle istituzioni e della società che originano gli svantaggi per modificarle.
Perché questo avvenga è necessaria una cultura della parità nella differenza radicata nelle istituzioni piuttosto che dipendere dallo sforzo delle singole impegnate su questi temi.
E’ quello che come Consigliere di parità stiamo portando avanti in sinergia con la regione Puglia in questi anni.
La valorizzazione delle donne come capitale umano è una strategia che punta sulla trasformazione dei sistemi delle strutture e delle culture per il raggiungimento dell’uguaglianza nelle politiche, nei programmi e nei progetti, sullo sviluppo di una nuova cultura scientifica che consideri la differenza una risorsa per l’intera società.
Certo ci auguriamo che non sia un cammino ancora lungo. Le donne sono state messe in attesa da troppi anni, oggi ci auguriamo che sia arrivato il TEMPO DELLE DONNE.

*consigliera di Parità della Regione Puglia

Fonte: iltaccoditalia