A Milano due giorni di studi e sui disordini da Internet. Per spiegare a chi ne è affetto che la vita è più di una raccolta di Like e Followers.

Si è concluso ieri a Milano il primo congresso internazionale sui disturbi di dipendenza da Internet (Internet Addiction Disorders), senza scomuniche, molte domande e, fortunatamente, qualche risposta. 

Prima fra tutte, sì, la dipendenza da Rete esiste. È multiforme come multiforme è il medium (dalla pornografia al gioco d’azzardo, transitando per la cronica incapacità di passare in modalità offline). È totalmente nuova? Forse no, perché poggia sulle stesse leve delle più note dipendenze da sostanze stupefacenti: una soddisfazione immediata, facile, potenzialmente e illusoriamente infinita, tanto da mettere a tacere, o quasi, ogni altro desiderio o ambizione. È qualcosa che sta nel nostro cervello e che lo psichiatra Furio Ravera definisce “Circuito della ricompensa”. La natura lo ha forgiato per un tipo d’uomo che non raffinava l’oppio né poteva navigare ovunque da un telefonino, ma è ancora lì. Per alcuni soggetti che hanno ferite di “incuria o di abbandono” è una tentazione irresistibile.  

Questa è la storia, per esempio, di un ragazzo di 17 anni che trascorreva oltre metà delle sue giornate al computer. Separato con un ricovero dal mezzo, spinto verso la realtà fisica grazie al rugby, pareva recuperato, finché non incontrò l’extasy a Londra, in età universitaria. Allora ripiombò nel circuito, questa volta con la droga. Oggi, una comunità terapeutica sembra averlo salvato, rassicura Ravera. 

Le dipendenze, insomma, hanno forme diverse, ma probabilmente origine comune.  

La tecnologia sembra innocente. Ha il solo difetto di in incontrare tutti, soggetti patologici compresi. E invece no, potrebbe non essere esattamente così.  

Una delle domande incontrate più volte nel congresso riguarda la validità della contrapposizione tra realtà e virtualità, ma il vero conflitto è tra realtà concreta e realtà digitale, dove la differenza la fa la scomparsa del corpo, con le conseguenze emotive che ciò comporta. Così Paolo Antonio Giovannelli, direttore dell’Esc Team (www.escteam.net) organizzatore dell’evento: “Per i ragazzi, quello che fanno in Rete è assolutamente reale, non c’è nulla di virtuale” ha sottolineato.  

La Rete è un luogo virtuale in cui le azioni hanno conseguenze materiali, sulla piattaforma digitale, ma anche nella vita. Quel che manca alle esperienze online è, però, il confronto ineluttabile e chiaro con i confini. E qui si gioca molta parte della salute psichica e della felicità umana: ci immaginiamo in un modo, sperimentiamo, verifichiamo cosa resta dell’immaginazione dopo il confronto con la realtà e con gli altri, quindi ci riposizioniamo nel cammino. Così si soffre e si cresce, se si è attrezzati a farlo.  

 

“Il digitale ci promette, invece, di soffrire di meno” spiega Giovannelli. Come? “Dandoci la possibilità di eliminare i feedback negativi che arrivano da alcune persone (posso escluderle da un social, cancellarle, non vederle), filtrando ciò che non ci piace (Google ci propone risultati di ricerca basati sulla nostra storia, quindi ci mostra il mondo come lo vorremmo), o addirittura trasformandoci in manipolatori”. È il caso di alcuni giochi online, che permettono di ottenere punti non solo con l’abilità, ma anche con l’acquisto in denaro di valori. In questo caso si esce dalla dimensione del gioco, si diventa dei bari, ma senza possibilità di essere identificati come tali. 

Non è un elemento come gli altri, il denaro, perché Internet e i social network ci avrebbero immersi in un “enorme centro commerciale” in cui la logica è quella della capitalizzazione: accumulare “mi piace” su Facebook, ma anche amici, follower su Twitter, punteggi nei giochi, con strategie e risultati che spesso aggirano la fatica, la frustrazione, la delusione. “I nostri giovani - secondo Giovannelli - sono in un centro commerciale, ma il problema è che non sanno di esserci”.  

Tutto questo potrebbe portare a un aumento di patologie che comportano isolamento, ricerca di soddisfazione solitaria lontana dai limiti che la realtà concreta impone. Il più famoso di questi disturbi ha un nome giapponese e in Giappone lo hanno per primi diagnosticato. Si chiama “Hikikomori”, e consiste in un isolamento sociale e una clausura quasi totale per almeno sei mesi, con casi che arrivano a durare decenni. La sorpresa è che, secondo il professor Tamaki Saito, a cui è (erroneamente) attribuita la paternità del termine, Internet c’entra poco o nulla con questi fenomeni di autosepoltura, che colpivano un tempo i ventenni e oggi, sempre più, i trentenni. Saito osserva il fenomeno a livello globale, lo paragona a quello degli young homeless inglesi, dei “bamboccioni” italiani, degli affetti da sindrome da Tanguy in Francia e via discorrendo. Eserciti di sfaccendati che solamente una volta su dieci riempiono le ore con il web. Nella maggior parte queste persone non fanno assolutamente nulla, non guardano nemmeno la Tv e disprezzano anche i rapporti virtuali. 

 

In tutti questi casi, più che la tecnologia, pesano valori culturali: il confucianesimo a Oriente, il cattolicesimo in Italia e Spagna. Dove c’è il senso della famiglia i soggetti si rinchiudono in casa con mamma e papà, mentre nelle culture nordiche è più facile finiscano per strada. I comuni denominatori sociali, secondo Saito, sono la difficoltà a trovare lavoro, sussidi economici troppo facili, processi di istruzione sempre più prolungati.  

Ma ce n’è un altro. Sono le troppe aspettative e una competizione globale capace di schiacciare i più fragili. Ed ecco che Internet rientra dalla finestra. Finestra sul mondo, il web pone tutti in competizione con tutti, in un mondo che si è fatto piccolo come un’aula scolastica e la fila di quelli più bravi di noi pare infinita. Per questo, racconta dalla platea un professionista francese, una cura che si sta sperimentando per gli Hikikomori parte da un approccio umano: non mi aspetto nulla da te, si dice ai pazienti, fa’ ciò che desideri. Anche Internet, così, può diventare più leggera. E ricevere un “mi piace”, magari distratto, può non essere così importante. 

Fonte: La Stampa