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Venerdì, 02 Maggio 2014 08:58

Aumentare l’occupazione femminile gioverebbe all’economia, soprattutto in Italia dove la situazione è arretrata. Secondo l’Ocse il reddito pro capite aumenterebbe per tutti di un punto percentuale l’anno. Ok, ma da dove cominciare per raggiungere l’obbiettivo? Ecco qualche spunto.

«Il vostro è uno dei Paesi della zona Euro che incoraggiano meno la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Un cambiamento di rotta, a parte ogni considerazione di progresso sociale, potrebbe avere effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e, quindi, sull’uscita da un periodo di stagnazione». A bacchettare l’Italia sul tema del lavoro femminile è stata Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 4 aprile scorso. Le dichiarazioni di Lagarde hanno avuto una certa risonanza e il giorno dopo, sullo stesso giornale, un articolo di Maurizio Ferrera ricordava che se al Sud le cose vanno peggio, nel confronto internazionale «anche in regioni relativamente ricche e sviluppate come l’Emilia Romagna o la Lombardia il tasso di occupazione femminile resta più basso rispetto alle aree con cui queste regioni dovrebbero confrontarsi». Il problema non è un diverso atteggiamento delle italiane rispetto al lavoro retribuito, osserva Ferrera, quanto l’insieme di ostacoli frapposti alla realizzazione di un normale progetto di vita: avere un lavoro e crescere dei figli. Se però l’Italia riuscisse a colmare il divario che separa il tasso di partecipazione femminile da quello maschile, il Pil aumenterebbe in modo considerevole, dando un impulso alla crescita e alla creazione di occupazione per tutti.

Nel rapporto Closing the gender gap, l’Ocse (2012) ha stimato per tutti i paesi membri l’effetto sul Pil di una maggiore occupazione femminile[1]. Per la media dei paesi Ocse, se per il 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, si avrebbe una crescita del Pil pro-capite del 12% in 20 anni, pari a 0,6 punti percentuali all’anno. Tra i paesi con il maggiore potenziale di crescita (superiore ai 0,6 punti) vi sono la Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Giappone, Corea, Lussemburgo, Polonia e Slovacchia. Ma ancora al di sopra di questo gruppo si trova l’Italia. Le proiezioni Ocse per il nostro paese mostrano infatti un aumento del Pil pro-capite di un punto percentuale l’anno, sempre a condizione che l’occupazione femminile raggiunga i livelli di quella maschile.

Quello dell’Ocse è solo un esercizio, ma è utile per ricordare che esistono anche ostacoli al lavoro che non dipendono solo dalla carenza di domanda. Certo si otterrebbero effetti positivi anche con una crescita del lavoro di giovani, anziani e disoccupati, ma una maggiore occupazione femminile avrebbe un peso diverso: il potenziale di offerta aggiuntiva che le donne incarnano è maggiore; inoltre se una donna lavora per il mercato parte del suo lavoro non pagato viene necessariamente trasferito al mercato perché quei servizi sono parte delle esigenze basilari dell’esistenza (cosa non necessariamente vera per i giovani, che di lavoro non pagato ne fanno molto meno, e solo in parte vera dei lavoratori anziani). Per questo l’analisi dell’Ocse è importante nell’indicare la strada da intraprendere. È bene sottolineare che non solo una maggiore partecipazione femminile in Italia si tradurrebbe in una significativa crescita del Pil, ma questo potenziale di crescita sembra essere in assoluto il più elevato tra i paesi Ocse. E un ulteriore impatto sulla crescita si otterrebbe riducendo il pay gap, il divario di reddito tra uomini e donne al lavoro. Le nuove coorti di donne attive diventano sempre più istruite e con un potenziale di reddito sempre più alto. Pertanto i nuovi ingressi nel mercato del lavoro potrebbero apportare un reddito aggiuntivo maggiore a quello medio, in assenza di discriminazione di salariale. 

Sull’importanza e le implicazioni della crescita dell’occupazione c’è ampio consenso. Ma per trasformare il miraggio in risultati concreti è importante mettere in atto una strategia articolata, di ampio respiro, capace di intervenire e risolvere i tanti ostacoli che ancora impediscono a molte donne di essere presenti nel mercato del lavoro senza rinunciare al desiderio di maternità.

Come evidenziato in molti contributi pubblicati negli ultimi anni su inGenere, per uscire dalla crisi strutturale in cui si trova il paese è fondamentale investire sulle donne. Abbiamo visto che per questa via si possono trovare soluzioni anche ad altri importanti problemi, come quello dell’invecchiamento della popolazione, con la creazione di “infrastrutture sociali” che farebbero crescere la domanda di lavoro (usando cioè i lavori di cura per “curare” la disoccupazione). Abbiamo visto l’importanza di poter avere orari flessibili sul lavoro, e gli effetti che i modelli di tassazione e di welfare hanno nell’incentivare o scoraggiare il lavoro femminile. Abbiamo in più occasioni analizzato la questione del lavoro delle più giovani, raccogliendo i materiali nell’ebook “Lavorare tutte”. E abbiamo proposto in che modo mettere in moto un “pink new deal” - un nuovo patto, che passi però necessariamente per l’occupazione femminile – e una piattaforma di azioni da cui cominciare. Sono rimaste, purtroppo, proposte sempre verdi.



[1] Più precisamente, per tutti i paesi Ocse è stata stimata la dimensione complessiva dell’economia in termini di prodotto interno lordo (espresso in dollari Usa, a prezzi 2005, a parità di potere d’acquisto) al 2030 per tre diversi scenari: una convergenza al 100% nei tassi di partecipazione al lavoro di uomini e donne, una riduzione del 50% del divario esistente, nessuna riduzione (Oecd 2012, pp. 29-30; 54-58). 

 

Fonte: InGenere