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Giovedì, 03 Aprile 2014 08:07

L’ immagine della figura femminile capovolta che è contenuta nel grafico spiega da sola cosa è successo nel giro di pochi anni in Italia.

In sei anni le donne presenti nei consigli di amministrazione sono passate dall’essere in prevalenza consiglieri non indipendenti (di solito componenti della famiglia proprietaria) a essere nella stragrande maggioranza dei casi consiglieri indipendenti. Il ruolo più scomodo di un Cda, potremmo dire, stante che ai consiglieri indipendenti è affidato il compito di fare il «cane da guardia» a tutela soprattutto degli azionisti di minoranza.

È uno dei dati contenuti in un libro di prossima uscita in Gran Bretagna (Women Directors, the Italian way and beyond , di Paola Profeta, Livia Amidani Aliberti, Alessandra Casarico, Marilisa D’Amico e Anna Puccio, Ed Palgrave McMillan) e che racconta la legge sulle quote di genere italiane.

Si tratta di un elemento da sottolineare perché significa porre «grande attenzione sulla scelta delle donne e questo a sua volta attiva un circolo virtuoso anche per gli uomini», dice Livia Amidani Aliberti, fondatrice di Aliberti Governance Advisors. Un dato che sfata le paure iniziali di questa legge.

Va detto che si tratta di prime analisi perché la legge ha solo un anno di vita vera alle spalle, essendo stata approvata a luglio 2012 per diventare vincolante nel 2013. La tornata di assemblee delle prossime settimane confermerà o meno i primi risultati. Secondo un’analisi di Spencer Stuart, ricorda Amidani Aliberti, «delle 61 donne entrate per la prima volta in un Cda lo scorso anno, 11 sono non indipendenti, in quanto collegate in modo diretto o indiretto alla proprietà o al management o all’azienda. Si tratta di un dato bellissimo, considerando che la media dei consiglieri non indipendenti sul totale è del 33%. Se si fosse rispettata la percentuale del mercato, dunque, le non indipendenti elette avrebbero dovuto essere 20, non 11.

Molto si è discusso sulla possibilità  meglio sul timore – che le cariche si concentrassero su pochi nomi. Che si affermassero, cioè, quelle che vengono chiamate «golden skirts» (gonne d’oro). I numeri dicono che questo, finora, non è avvenuto. Il confronto con Gran Bretagna (Paese nel quale non esistono quote di genere), Finlandia e Norvegia (dove, invece, le quote esistono) mostra, infatti, che nel 90,5% dei casi le donne siedono in un solo consiglio di amministrazione. Meno del 10% ha da due a tre Cda. Questi numeri sicuramente si modificheranno almeno un po’ dopo le nomine di questa primavera, anche se un freno al cumulo di cariche (per donne e uomini) è dato in Italia dall’interlocking (ovvero, il divieto di assumere o esercitare cariche in imprese, o gruppi di imprese, concorrenti, operanti nei mercati del credito, assicurativo e finanziario).

Per capire l’efficacia della legge delle quote bisogna analizzare, secondo Amidani Aliberti, le reti nel tempo.

«A oggi — dice — la rete femminile si appoggia ancora su quella maschile. Ma è troppo presto per dare un giudizio, ripeteremo le analisi dopo le prossime nomine. Potrebbero essere nominate donne forti e connesse».

Reti e numero di consigli in cui si è inseriti sono temi connessi. Ma le golden skirts sono un male o un bene?

Tommaso Arenare, partner di Egon Zehnder, contesta in partenza la stessa definizione di golden skirts, «ha le stesse connotazioni negative inconsce del termine “quote rosa”, un chiaro esempio di pregiudizio. Ci possono essere donne che assumono troppe posizioni nei Cda, esattamente come gli uomini. È un fatto che non ha niente a che vedere né con il genere né con la legge, però a nessuno è venuto in mente di usare una espressione simile per gli uomini».

Nel merito della questione, Arenare dice che il talento femminile è abbonante e non si corre il rischio che ci siano donne che facciano incetta di incarichi. Anzi, «nella mia esperienza personale — dice — ho incontrato soprattutto donne estremamente attente a non eccedere nel numero di consigli. Hanno affrontato questo compito con maggior consapevolezza, innalzando gli standard di qualità».

Aprile e maggio saranno due mesi centrali per verificare la tenuta della legge, la cui approvazione si deve alle deputate Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, e Alessia Mosca. Si svolgeranno, infatti, questa primavera le assemblee che dovranno rinnovare 65 consigli di amministrazione e 73 collegi sindacali di società quotate in Borsa, portando – se i consigli manterranno le dimensioni attuali – altre 50 consigliere di amministrazione e 80 sindache.

La grande scommessa saranno le società pubbliche. Colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, finora solo maschili, dovranno, necessariamente, riservare il 20% dei Cda e dei collegi sindacali al genere meno rappresentato (a partire dal secondo rinnovo la quota salirà al 33%). Complessivamente (quindi considerando anche le quotate), nel campo pubblico sono da rinnovare i vertici di 14 società controllate direttamente e 35 indirettamente. Il precedente governo aveva affidato a due società di executive search (Spencer Stuart e Korn Ferry) la stesura di una lista unica di tutte le candidature. Sul sito del Tesoro era disponibile anche una casella di posta alla quale far arrivare le proprie candidature. C’è chi dice che in poche si siano candidate. Su questo specifico punto, tre considerazioni: la prima è che la possibilità di autocandidarsi non è stata molto pubblicizzata; la seconda è che in una selezione così delicata non è facile inviare il proprio curriculum quasi«a caso»; la terza è che chi ci ha provato talvolta è stato rimandato indietro perché la casella era bloccata. Sarà però interessante sapere anche quanti professionisti uomini si saranno auto-candidati.

Fonte: La 27ma Ora